Tutto incominciò con una telefonata alle 9 di mattina di una domenica di autunno del 1934 quando Célestin Bouglé, rendendosi interprete di “un capriccio un po’ perverso” di Georges Dumas, chiede a Claude Lévi-Strauss, allora ventiseienne, se era disposto a partire per il Brasile su incarico di una commissione incaricata di organizzare l’università di São Paulo. Lévi-Strauss, che allora insegnava al liceo di Laon, accetta senza esitazione e parte per il Brasile dove rimane fino al 1939.
In questi cinque anni, oltre alla cattedera di sociologia che gli era stata affidata, Lévi-Strauss compie spedizioni etnografiche nel Mato Grosso, nell’Amazzonia meridionale, entra in contatto con la popolazione dei Caduvei, dei Bororo, dei Nambikwava, dei Tupi Kawahib, e raccoglie tutto il materiale che poi ordinerà nei suoi libri che, nel loro complesso, costituiscono il corpus più significativo e filosoficamente più interessante dell’antropologia del Novecento.
Mai parlar male della filosofia, perché, anche in chi, dopo averla frequentata, la disprezza, la filosofia lavora come un’inquietudine che rode l’anima finché non le si dà espressione. Quello che sarà il più grande antropologo del Novecento attribuisce la delusione del suo apprendistato speculativo al fatto che la filosofia è sterile come disciplina che si esprime come système, mentre può diventar feconda se si rivolge a quello che Lévi-Strauss chiama concret, come aveva fatto Marx che Lévi-Strauss aveva letto a diciassette anni. La sua opposizione al “sistema” si rivolge anche a tutti quegli antropologi che avevano prediletto le ricerche systématisantes, mentre la vera ricerca, se vuole evitare conclusioni dogmatiche, dovrà essere ricerca “sur le terrain” come quella praticata da Marcel Mauss allievo e nipote di E. Durkheim.
Ma non sono mai le esigenze puramente teoriche che inducono qualcuno a cambiar cielo e a cambiar terra. Quando le stelle non hanno più la stessa disposizione con cui appaiono nella terra d’origine, spontanea sorge quella domanda che Lévi-Strauss si pone dopo un’avventurosa peregrinazione nelle foreste del Mato Grosso: “Che cosa siamo venuti a fare qui? Con quale speranza? A quale fine? Avevo lasciato la Francia da quasi cinque anni, avevo abbandonato la mia carriera universitaria; la mia decisione esprimeva una incompatibilità profonda nei confronti del mio gruppo sociale da cui, qualunque cosa accadesse, avrei dovuto isolarmi sempre di più”. Alla base di queste domande e del malaise che le promuove c’è un continuo ed estenuante interrogarsi sul senso e sul destino della civiltà occidentale, delle sue credenze e dei suoi valori, tutti imperniati su quell’orgoglio eurocentrico incapace di percepire e di comprendere l’esistenza dell’Altro, non semplicemente teorizzata a livello filosofico, ma toccata concretamente con mano nella forma di altri popoli, altre culture, altre civiltà.
Agli “antipodi” dell’Occidente Lévi-Strauss vede: “Il segno di una saggezza che i popoli selvaggi hanno spontaneamente praticata, mentre la ribellione moderna è la vera follia. Essi hanno spesso saputo raggiungere col minimo sforzo la loro armonia mentale. Quale logorìo, quale irritazione inutile ci risparmieremmo se accettassimo di riconoscere le condizioni reali della nostra esperienza umana e pensassimo che non dipende da noi liberarci interamente dai suoi limiti e dal suo ritmo?”.
Quella “antitesi”, che aveva spinto Lévi-Strauss ad abbandonare l’Europa, potrebbe ora essere ricucita dalla sua opera se appena siamo capaci di scorgervi, al di là dello spirito di ricerca che l’ha promossa, l’intenzione profonda che l’ha generata e che potremmo riassumere nel concetto che, per quanto lontane siano le latitudini, e diversi i cieli, gli uomini, se nessuno di essi pensa se stesso al centro del mondo, sono tra di loro molto simili, e perciò possono incominciare a parlare e a dirsi molte più cose di quante non se ne siano dette nel corso della loro storia.