La scienza applicata alla salute si chiama “medicina”. Il suo scopo, come dice Ippocrate, è quello di “evitare i mali evitabili”. Il suo modo di procedere, come ci ricorda Aristotele figlio di un medico, è quello di “aiutare la natura a risanarsi. Non è infatti il farmaco a guarire, ma la natura coadiuvata dal farmaco”. Questo non ci deve far dimenticare che è propria della natura umana la “mortalità” che i greci avevano ben presente, mentre i cristiani, sedotti dalla fede nella vita eterna, meno. Ciò ha determinato una sorta di “superstizione scientifica”, come la chiama Jaspers, che investe la figura del medico di quell’alone di sacralità di cui, nel tempo antico, erano circondati i sacerdoti. Questa contaminazione tra scienza medica e fede religiosa è antica e ben radicata nel vissuto degli uomini. Dai fondatori di religioni che acquisivano seguito per le guarigioni miracolose che operavano ai processi di santificazione che esigono come prove le guarigioni fisiche, è una sequenza ininterrotta dove la categoria religiosa della “salvezza” si contamina con quella medica della “salute”. Questo stretto rapporto trova un’ulteriore conferma nella visione che la religione e la scienza hanno del tempo. Per la religione, infatti, il passato, contrassegnato dal peccato originale, è male, il presente è redenzione e riscatto, il futuro è salvezza. Allo stesso modo per la scienza il passato è male da imputare all’ignoranza, il presente è riscatto reso possibile dalla ricerca, il futuro è speranza dischiusa dal progresso scientifico. Oggi questa antica alleanza tra scienza medica e fede religiosa è entrata in profondissima crisi, dovuta al fatto che tra scienza e religione si è inserito quell’ospite inquietante che è la tecnica, la quale rende possibile quello che per natura è impossibile. Basti pensare alla fecondazione artificiale, al congelamento degli embrioni, al trapianto degli organi, al cambiamento di genere, alle cellule staminali in grado di ricreare tessuti, alle pratiche di rianimazione, all’accanimento terapeutico, per non parlare della genetica, capace di predire con buona approssimazione l’insorgenza ineluttabile di malattie, fino a quel limite che sottrae agli uomini l’imprevedibilità della loro morte. A regolare il procedimento tecnico-scientifico è il principio che “si deve fare tutto ciò che si può fare” in base alle conoscenze acquisite, a cui la religione contrappone il principio etico del limite che ha nell’ordine della natura il suo riferimento. Come uscirne? Una strada c’è, percorrendo la quale incontriamo due segnalazioni. La prima ci dice che la natura non è “buona”, ma semplicemente “indifferente” alla sorte umana. Non si spiegherebbero diversamente epidemie, pestilenze, inondazioni, siccità, fame, malattie, per porre rimedio alle quali è nata la scienza. La seconda ci dice che non possiamo utilizzare un’etica i cui principi scaturiscono da una concezione della natura come ordine immutabile, quando oggi la natura è in ogni suo aspetto manipolabile. Per il mutamento del contesto un’etica sì fatta non è più proponibile, dal momento che non si può impedire alla scienza che può di non fare ciò che può. Il problema allora diventa quello della “misura” che non va cercata nei principi formulati quando la natura era immodificabile, ma in quella indicazione aristotelica che, in assenza di principi generali, consente di prendere decisioni esaminando caso per caso. Aristotele chiama questa capacità “phronesis”, che siamo soliti tradurre con “saggezza”, “prudenza”, e la eleva a principio regolativo della prassi non solo medica, perché le decisioni e i comportamenti sono in continua evoluzione, e questo a maggior ragione in presenza dell’accadimento scientifico. Non resta allora che affidarci al buon uso della ragione, perché questa è la condizione umana da conciliare con l’altra nostra imprescindibile esigenza che è il bisogno di conoscenza.